Giuseppe Ricci Oddi: un uomo e il suo museo
Può il sogno di uno solo diventare il sogno di un’intera comunità? È quello che si racconta nel servizio.
A ll’inizio di tutta questa storia c’è un uomo di neanche trent’anni. Siamo nel 1897 e il nostro protagonista, che si chiama Giuseppe Ricci Oddi, decide di congedarsi dall’anziana madre e andare a vivere da solo. Ma siccome la donna è rimasta vedova prematuramente, e lui è figlio unico, non se la sente di abbandonarla del tutto. Così trova un compromesso: resta nell’antico palazzo di famiglia, in via Poggiali, nel cuore di Piacenza. Solo che cambia piano.
Una delle idee innovative del progetto museale è quella di far cadere luce naturale sulle opere dall’alto, tramite lucernari aperti nei soffitti delle sale espositive.La collezione si fa così discorso, di cui ogni dipinto o scultura è una parola.
Una volta entrato in possesso del nuovo appartamento, Ricci Oddi si rende conto di come le pareti siano spoglie. Certo, ci sono appese antiche incisioni e alcune tele di chissà quando scurite dal tempo, ma niente che parli al suo gusto. E nonostante sia un uomo votato all’azione (ottimo atleta dilettante, tra l’altro), è comunque un nobile e può contare su una buona cultura. Così si rivolge a un amico scultore che lavora a Milano, Oreste Labò, e su suo consiglio compra due bei quadri di artisti contemporanei: Francesco Filippini e Gaetano Previati. Sono dipinti di una certa dimensione e hanno soggetti diversissimi, perché uno rappresenta delle pecore tosate e l’altro re Carlo Alberto che si avvia all’esilio dopo la sconfitta di Novara. Hanno però in comune una cosa: trasmettono una certa malinconia. Che forse corrisponde a quella dell’animo di Ricci Oddi.L’uomo li appende alla parete, li guarda in silenzio, e se ne innamora. O meglio: si innamora – anche se ancora non lo sa – della possibilità di comprare opere. Comincia così una delle più straordinarie avvenute collezionistiche dell’Italia moderna. Fatta di relazioni con i maggiori galleristi dell’epoca, di acquisti alla Biennale di Venezia, di lunghe trattative con privati che possiedono opere entusiasmanti. Durerà fino al 23 ottobre del 1937, quando alle tre del pomeriggio, mentre passeggia di fronte all’albergo Croce Bianca di Piacenza, Ricci Oddi sarà colto da malore e verrà a mancare. Lasciandosi però alle spalle, custodito nel museo che porta il suo nome, un patrimonio di oltre quattrocento pezzi a firma tra gli altri di Giovanni Boldini e Giuseppe Pellizza da Volpedo, Antonio Fontanesi e Giovanni Fattori, Umberto Boccioni, Medardo Rosso e Antonio Mancini, Felice Casorati, Francesco Messina, Francesco Paolo Michetti, Giulio Aristide Sartorio e Federico Zandomeneghi.
Nella solitudine dell’ozio forzato domenicale provo un ineffabile diletto e sollievo raggirandomi nelle mie stanze tra la moltitudine silenziosa (eppure tanto eloquente) dei miei quadri. Nulla di più interessante, di più prezioso quanto quelle intime confidenze sussurratemi in un linguaggio svariatissimo da così discreti e fidi amici.Giuseppe Ricci Oddi
Un uomo solitario non è un uomo solo.
Abbiamo scritto che all’inizio di questa storia c’è un uomo di neanche trent’anni. Ed è vero. Ma è anche vero che la storia,
per diventare così grandiosa, ha bisogno di altri protagonisti. Oltre a Oreste Labò, tra i fidi consiglieri di Ricci Oddi dobbiamo quindi ricordare
l’artista dilettante Carlo Pennaroli, gli studiosi Leandro Ozzola e Laudedeo Testi, oltre al pittore torinese Marco Calderini.
In più galleristi come Lino Pesaro e Luigi Scopinich. Ma c’è un nome che primeggia sugli altri. Giulio Ulisse Arata.
Un architetto piacentino di nascita, come il collezionista, ma che a inizio Novecento diviene celebre in tutta Italia.
Non solo Arata è tra gli amici a cui Ricci Oddi si rivolge per avere consigli in fatto d’arte. È anche colui che progetterà
il museo che custodisce la collezione. Regalando al nostro Paese un esempio più unico che raro di contenitore d’arte tagliato
su misura per il contenuto che deve custodire, mentre quasi sempre le raccolte pubbliche sono collocate in palazzi sorti con altro scopo.«Nella solitudine dell’ozio forzato domenicale provo un ineffabile diletto e sollievo raggirandomi nelle mie stanze tra la moltitudine silenziosa (eppure tanto eloquente) dei miei quadri. Nulla di più interessante, di più prezioso quanto quelle intime confidenze sussurratemi in un linguaggio svariatissimo da così discreti e fidi amici», scrive Ricci Oddi nel suo diario il 28 marzo 1920. Ha l’abitudine di combattere la noia dei giorni di festa, quando non può lavorare, sedendosi a cavalcioni di una seggiola e rimanendo in quella posizione a rimirare le sue opere anche per ore, in un dialogo privo di suoni, ma pieno di significato. E nonostante questo, ha già deciso: la sua raccolta deve diventare pubblica, perché tutti possano democraticamente ascoltare la voce dei suoi quadri.
Se il destino vorrà favorire l’effettuazione di questo mio progetto io ne sarò felice nella convinzione di aver creato per la mia città un rifugio di serena tranquillità contemplativa... Giuseppe Ricci Oddi
Nascita di un museo che somiglia a un tempio.
Il 6 marzo 1924 scrive a Giacomo Lanza, sindaco di Piacenza, poche righe: «Premessa la mia ferma intenzione di donare al Comune di Piacenza la mia raccolta di quadri contenuta in apposito edificio che io costruirei a mie spese, qualora il Comune me ne apprestasse – gratis – l’area sufficiente e conveniente, delego con questo mio biglietto il sig. comm. Giulio Arata, architetto, e il sig. dott. Torquato Vitali, notaio, ad iniziare per mio conto le eventuali trattative col Comune stesso pel raggiungimento dello scopo suddetto».Vuole donare le opere e costruire il museo, solo che gli si dia un’area in cui farlo. E questo perché ha avuto una visione. L’ha descritta il 6 aprile 1921, sempre nel suo diario: «Preceduto da un verde tappeto di ben levigato prato e fiancheggiato da due folti ciuffi d’alberi vedo ergersi sulla platea bianca di una lieve marmorea gradinata il piccolo mio tempio. Nel centro fronteggia aperto ed ospitale a tre arcate un ampio (ma non troppo ampio) peristilio, semplice nelle linee e solenne come il Bramante lo avrebbe disegnato. Ai lati, due snelle finestre del più puro stile Rinascimento danno vivezza alla facciata sulla quale sovrasta agile, ma vigoroso, il classico attico. Nell’interno retrostante al peristilio s’apre uno spazioso vestibolo al centro del quale un ampio portale immette ad una lunga galleria su cui simmetricamente a destra e a sinistra s’affacciano le numerose sale. Al termine della galleria un vasto salone semicircolare dà compimento all’euritimia del mio piccolo museo!», e conclude: «Se il destino vorrà favorire l’effettuazione di questo mio progetto io ne sarò felice nella convinzione di aver creato per la mia città un rifugio di serena tranquillità contemplativa dove non giunge l’eco delle aspre lotte civili, dove lo studio e il diletto s’accoppiano nella forma più leggiadra per ingentilire e nobilitare l’animo e la mente nostra». Non è passato poi molto tempo dalla fine della Prima guerra mondiale. Grazie a sognatori del genere, l’Italia si affaccia al futuro.
Finalmente potremo costruire una galleria per le opere e non dovremo adattare alla meno peggio le opere in un palazzo già pronto. Il mio entusiasmo è pari al suo. Giulio Ulisse Arata
«Le opere dei viventi avranno un trattamento che si solito è riservato ai capolavori dei morti».
Per sognare ancora meglio, però, occorre essere in due. E l’edificio che sorge nella mente di Ricci Oddi ha bisogno di un architetto per divenire progetto, cantiere e infine museo. Nel triennio precedente Giulio Ulisse Arata ha lavorato alla ricostruzione di Reggio Calabria, e in quello stesso 1924 in cui assume l’incarico ha aperto un secondo studio professionale a Bologna, dopo quello di Milano. In precedenza ha lavorato a Napoli e occupato la cattedra di architettura a Parma. Insomma: è un professionista di fama, al quale arrivano committenze importanti. Ma l’idea del museo lo coinvolge più di ogni altra. Sorgerà nel cuore di Piacenza, la sua città. E sarà unico.«Finalmente potremo costruire una galleria per le opere e non dovremo adattare alla meno peggio le opere in un palazzo già pronto. Il mio entusiasmo è pari al suo [di Ricci Oddi, N.d.R.] che è grandissimo e non mi par vero di aiutare un’affermazione dell’arte moderna. Tutti intorno a noi e per troppi anni negarono l’esistenza di una pittura e di una scultura italiana dopo l’Hayez e il Canova. La raccolta di Ricci Oddi è lì a provare il contrario, è una affermazione stupenda della nostra continuità artistica. Ora cerchiamo l’area per il museo; vorrei trovare un giardino in modo che il palazzo al centro si raccogliesse quasi claustralmente e il verde degli alberi, anziché delle aiuole di uno stile vecchiotto, facesse una cornice ideale alle creazioni pittoriche. Penso di dedicare lo sforzo maggiore della mia fantasia nel disegno del vestibolo con qualche preziosità di marmi o di fontane tra l’ingresso e le scale. I quadri, i bozzetti saranno disposti ampiamente, ne sacrificheremo qualcuno: ma quelli esposti dovranno essere tutti visibili, tutti “godibili”. Le opere dei viventi avranno un trattamento che di solito è riservato ai capolavori consacrati dei morti».Arata rilascia queste dichiarazioni a Raffaele Calzini, che lo intervista sul quotidiano milanese Il Secolo del 4 aprile 1924. Tutto si è messo in moto, ormai. La Galleria d’arte moderna “Ricci Oddi” racconterà l’arte italiana – più qualche significativo capolavoro straniero, come Ritratto di signora di Gustav Klimt – da Hayez, di cui il collezionista ha comprato una Testa di vecchio, in poi, lasciando però fuori il futurismo e altre simili “aberrazioni” della modernità. Del resto… «Cubismo! Futurismo ecc. ecc.!!! Progresso? O pazzia?! O nichilismo in arte? O bolscevismo stupido e ignorante? Il tempo ne sarà giudice fra qualche anno, allorquando al tumulto morboso del dopoguerra subentreranno le rinnovate energie dell’umano cervello» aveva scritto Ricci Oddi nel suo diario il 20 dicembre 1919. Perché modernità sia, ma nel solco della migliore tradizione italiana, fatta di qualità del disegno e della pennellata, o del bozzetto e del modellato scultoreo.
Quando la visione diventa realtà.
Finalmente si comincia. E si comincia in via San Siro, nel cuore della città, dove il nuovo edificio “attecchirà” sul complesso di un monastero cistercense ormai distrutto e sulle rovine della chiesa annessa. Lì, intorno a un chiostro rinnovato, sorgeranno lo spazio museale e quello destinato all’associazione “Amici dell’Arte”, costituita da gentiluomini come Ricci Oddi che nel tempo si impegneranno in un programma di mostre collaterali. Arata è uno specialista in questo genere di interventi. Da sempre, infatti, ama modulare il suo linguaggio architettonico – che contiene suggestioni dagli stili antichi come dai migliori colleghi della modernità: su tutti lo spagnolo Antoni Gaudì, ma anche Hoffman, Horta e Berlage, Saarinen e Wagner, Olbrich e Kotera, Boberg e Massel – su quello che trova di già esistente in loco. Il suo è un percorso in equilibrio tra progettazione e urbanistica.Ma com’è, dunque, questa “Ricci Oddi”? Arata la realizza dando seguito alla visione dell’amico collezionista. C’è il «verde tappeto di bel levigato prato» tutt’attorno, come ci sono gli alberi, per quanto principalmente su uno dei due lati e sul retro. C’è la lieve gradinata che porta alla soglia del Salone d’onore, e anche se mancano le tre arcate bramantesche ad adornare l’ingresso, al posto delle vagheggiate finestre trovano collocazione due bassorilievi di Antonio Maraini (padre dell’etnologo Fosco e nonno della scrittrice Dacia) con allegorie della Scultura e della Pittura. Quello che Ricci Oddi chiama «vestibolo» è di fatto il già citato Salone d’onore, da cui davvero parte «una lunga galleria su cui simmetricamente a destra e a sinistra s’affacciano le numerose sale». Di fatto, visto dall’alto, l’edificio somiglia a una chiesa con pianta a croce latina, ma “fiorita” di sale sui lati, e particolarmente in fondo, dove “sboccia” in una corolla tutt’attorno alla rotonda che Ricci Oddi aveva immaginato come il «vasto salone semicircolare [che] dà compimento all’euritimia del mio piccolo museo».
Le opere vanno ad abitare la casa progettata per loro.
Un’articolazione del genere permette di sistemare la collezione, nelle sale, in base alle scuole regionali, che è esattamente l’idea che il nobile piacentino ha avuto in mente man mano che procedeva con gli acquisti. Riservandone però alcune ai pittori più amati: Antonio Fontanesi e Antonio Mancini su tutti. Contenitore e contenuto si corrispondono alla perfezione. E insieme divengono racconto grazie all’incanto della luce naturale, che entra dall’alto tramite i lucernari aperti sul soffitto. Si tratta di vere e proprie finestre che mettono in dialogo interno ed esterno, senza che ci siano luci artificiali a “sbattere” violentemente sulle superfici delle opere, “accecandole”. Si tratta di un’idea che riposa su una volontà precisa di Ricci Oddi: nel 1919, prendendo in considerazione l’acquisto di palazzetto Fogliani in via San Giovanni, aveva annotato nel suo diario che il fatto che fosse posto tutto su un solo piano era «circostanza favorevole per poter illuminare direttamente con lucernai dall’alto le sottostanti sale». Insomma: i due amici concordano. La luce naturale che passa attraverso i vetri sul soffitto è la soluzione migliore.Il museo sarebbe dovuto costare due milioni di lire. Il conto finale sarà invece di tre. L’inaugurazione avviene l’11 ottobre 1931 alla presenza dei principi di Piemonte, Umberto e Maria José di Savoia, oltre che di tutte le autorità locali. La folla accorsa, che si accalca al di fuori dei cancelli, è immensa. Manca solo Ricci Oddi. Schivo di carattere com’è, alle luci della ribalta preferisce ancora una volta la quiete di un’operosa solitudine. Oramai quello che doveva fare l’ha fatto. Saranno gli oltre quattrocento capolavori che ha raccolto a parlare di loro stessi e a parlare per lui. In quello che è un vero e proprio 'tempio' per l’arte e che si appresta a compiere 80 anni.