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Vertigo - Un nuovo tipo di suspense

Vertigo di Alfred Hitchcock è unanimemente considerato un capolavoro della storia del cinema: un titolo che, secondo un’indagine condotta nel 2012 da Sight and Sound, rivista pubblicata dal British Film Institute, ha scalzato Quarto potere dalla prima posizione nella classifica di Miglior Film di Sempre, primato che la pellicola di Orson Welles aveva mantenuto per oltre cinquant’anni. In casi come questo, dove l’oggettività per fortuna è relativa, “Sempre” (of All Time) è una categoria dell’anima.


Vertigo è la storia di un’ossessione.

In effetti, tutte le storie più belle sono storie di ossessione e tutti i personaggi migliori sono figure ossessive: Travis Bickle di Taxi Driver, Daniel Plainview di Il petroliere, Caden Cotard di Synecdoche, New York, Nina Sayers di Black Swan, tutti i protagonisti dei film di Werner Herzog… vorrei andare avanti, ma non posso. 
In ogni caso lo conferma lo stesso Hitchcock nel famoso libro intervista di François Truffaut (i francesi della Nouvelle Vague sono i gloriosi responsabili della parabola del britannico da regista di genere ad autore degno dell’Olimpo dei grandi): «In poche parole, quest’uomo vuole andare a letto con una morta. Si tratta di necrofilia».
Vertigo è un noir tratto dal romanzo D’entre les morts, scritto da Thomas Narcejac e Pierre Boileau (pubblicato in Italia da Adelphi con il titolo La donna che visse due volte).

La sceneggiatura però sposta l’azione dalla Francia degli anni Quaranta alla California degli anni Cinquanta, dove il detective John “Scottie” Ferguson – James Stewart in uno dei suoi ruoli più ambigui – viene incaricato dal vecchio amico Gavin Elster di indagare i comportamenti preoccupanti della moglie Madeleine – Kim Novak, scelta per rimpiazzare la prima scelta di Hitchcock, Vera Miles – che sembra posseduta dal fantasma di una sua antenata, Carlotta Valdés, morta suicida a causa del marito che le ha portato via la figlia. L’incontro tra i due aggiunge al mistery la storia d’amore: durante il pedinamento, infatti, Scottie salva Madeleine che tenta di annegarsi buttandosi nella baia di San Francisco, esattamente sotto il famoso ponte (rosso). Nel tentativo di sottrarre la donna alle sue pulsioni, il detective la conduce in tutti i luoghi che lei ripercorre ossessivamente (esiste, a San Francisco, un vero e proprio “Vertigo Tour” che accompagna i cinefili nelle location del film), ma, a causa della sua fobia delle altezze, non riesce a impedire che Madeleine si butti dalla torre campanaria della missione spagnola che tante volte (a suo dire) le era comparsa in sogno.
Scottie precipita in uno stato catatonico e trascorre molto tempo in un ospedale dal quale esce con una curiosa diagnosi di “complesso di colpa e forma acuta di malinconia”. Niente sembra più interessarlo, gira a vuoto per la città, la vede scritta su tutti i muri e probabilmente ogni canzone gli parla di lei, finché casualmente incontra Judy Barton, che, colori a parte, è la copia esatta di Madeleine. Scottie la segue e riesce a invitarla a cena, rivelandole che gli ricorda qualcuno che ha molto amato.


Fino a questo punto lo spettatore ha le stesse informazioni del protagonista.

Ma qui Hitchcock devia dal romanzo originale e inserisce una scena che svela il mistero. Judy – ci racconta lei stessa – ha “interpretato” Madeleine per Scottie, in un inganno orchestrato con Gavin: ha fatto innamorare Scottie per poi attirarlo sulla torre campanaria da dove Elster ha spinto nel vuoto la vera Madeleine (che né lo spettatore, né Scottie hanno mai visto) e nascosto Judy nell’ombra, approfittando dell’acrofobia del detective che non può seguirla così in alto (un piano non troppo  perfetto, lo fa notare lo stesso Hitchcock). Il film procede con la trasformazione di Judy in Madeleine: Scottie le compra i vestiti adatti e le fa tingere i capelli di biondo, fino a ottenere la copia esatta dell’amata. Judy infine si tradirà e la sua parabola si concluderà altrettanto tragicamente di quella del suo doppio.
Come è facile intuire dalla complessità della trama, Vertigo è un grande contenitore di miti, come Orfeo e Euridice, oltre a Pigmalione; di topoi letterari, come il doppelgänger, ovvero il doppio malvagio, che arriva dalla letteratura e dal cinema espressionista tedesco; e di teorie della psicanalisi: personaggi bloccati nelle proprie identità/maschere/travestimenti, nevrosi, fobie, voyeurismo, cambi di personalità, ritualità, simbolismi, mania di controllo, abusi di potere. C’è inoltre la messa in scena – on stage, questa volta – della forzata ricostruzione della classica bionda hitchcockiana elegantissima, fredda e algida, una pura fantasia sessuale replicata in decine di titoli. Insomma: il film è un trionfo di (meta)spiegazioni freudiane.


Vertigo fa parte del canone della modernità.

È un’opera astratta che si esprime per immagini più che a parole e che organizza così lo scontro tra opposti: sogno/realtà, passione/ossessione, creazione/distruzione, attrazione/repulsione.
Tutti escono sconfitti in Vertigo, che anche è un film sulla caduta, fisica e simbolica, dell’individuo: Scottie teme di cadere nel vuoto, così fallisce nel tentativo di salvataggio prima e in quello di ricreare l’involucro della sua donna ideale dopo; Madeleine/Judy cade nell’acqua prima e nel vuoto poi, dopo essersi lasciata trasformare da due uomini diversi, prima per denaro e poi per amore; il pubblico cade perché resta senza lieto fine, con un protagonista che ha smesso di essere piacevole a metà film.

A questa grande abbuffata di contenuti, Hitchcock aggiunge diversi artifici formali che rendono il film fenomenale anche dal punto di vista estetico e che avvolgono lo spettatore nella sua spirale: “l’effetto Vertigo”, ovvero la carrellata indietro e lo zoom in avanti che fanno girare la testa a noi e a Scottie Ferguson; l’inserimento della computer grafica (nel 1958!) nella sigla e nell’incubo di Scottie; l’utilizzo dei colori sia nella costruzione delle scene sia nei diversi look della donna “che visse due volte”, che sono diventati immagini fortemente iconiche.


I colori

Come racconta (e illustra) sapientemente Riccardo Falcinelli nel suo libro Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo (Einaudi, 2017) dedicandogli un intero capitolo dal titolo Verde vertigine, Madeleine e Judy sono raccontate attraverso le tonalità. Madeleine, che è una bionda platino con i capelli stretti in uno chignon e che si veste di grigio, si configura come una tela bianca sulla quale un uomo può tratteggiare le proprie fantasie. Non solo: per tutta la prima parte del film, Scottie segue Madeleine osservandola da lontano, in un’atmosfera soffusa, quasi onirica. La guarda come se fosse un’opera d’arte. E Madeleine è, in effetti, un’opera d’arte creata apposta per Scottie, qualcosa di fragile, che ha bisogno di protezione, che riesce a farlo sentire desiderato. Judy invece ha i capelli castano-rossi e li porta sciolti, si veste di verde brillante, ha un trucco vistoso: la sua è una personalità cromatica che Scottie vuole decolorare per tornare alla fantasia primitiva, quella della donna morta. Per ritrovare e placare la propria paura e il proprio desiderio di morte.

Madeleine è un ruolo, Judy è una persona vera. Madeleine è ricca, Judy è una commessa. Madeleine cerca la morte, Judy cerca l’amore.
Oltre al verde, colore mortifero, della putrefazione, ma anche della vita, della natura, compare spesso nel film il complementare rosso: la sensualità, la seduzione. Rosso è il locale dove Scottie vede Madeleine per la prima volta, bionda in un luogo di donne brune, con una stola verde mentre sono tutti vestiti di scuro (un verde che anticipa l’ingresso di Judy).

Rossa è la vestaglia che Scottie presta a Madeleine dopo averla salvata dalla baia. Verde è l’insegna al neon fuori dall’albergo di Judy, che l’avvolge completamente al termine della sua trasformazione in Madeleine, da ragazza viva in involucro morto, in quel doppio che la sta cercando, che la sta aspettando su quel tetto, alla base del campanile.

È un incontro tra bisogno e malattia. «L’ossessione di Scottie è iconografica», scrive Falcinelli. E Judy, a sua volta, pur di sentirsi amata accetta di farsi trasformare, decolorare, plasmare dalla fantasia maschile, perché sa perfettamente che non si può competere con una donna morta, nemmeno in quel cortocircuito che la vede competere con se stessa. Scottie si innamora quindi di Judy nel momento stesso in cui la uccide.
«Each man kills the things he loves», scrive Oscar Wilde ne La ballata della galera di Reading. Aggiungendo subito dopo: «The coward does it with a kiss». Oh, Scottie…

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